Un articolo interessantissimo di Federico Ferrero (7 ottobre 2013)
«Un sasso è caduto in un bicchiere colmo d’acqua e l’acqua è traboccata sulla tovaglia. Tutto qui».
(Dino Buzzati, Il Corriere della sera, 11 ottobre 1963)
«Quel sasso, c’è qualcuno che lo ha lanciato». (Mauro Corona, scrittore, maggio 2013)
Scrivere del Vajont, per me, è uno slalom con paletti elettrificati. Tina Merlin, l’eroina dell’Unità che denunciò la frana del monte Toc in tempi non sospetti, scriveva sul mio stesso giornale. E sono uno di quegli otto milioni di italiani che, il 9 ottobre del 1997, si era fatto stregare dal racconto di Marco Paolini, mandato in onda in prima serata su Rai Due grazie a Carlo Freccero: scelta azzardata, che riscosse un un successo clamoroso e tale da far sperare, per qualche giorno almeno, nell’alba di un cambiamento storico – ovviamente mai avvenuto – nei contenuti della tivù pubblica. Ma questa è un’altra storia.
Il racconto del Vajont di Paolini, del quale è inutile sottolineare l’eccellenza (tre ore di monologo in compagnia di un gesso e una lavagna, sufficienti per un viaggio che ti prende per mano, ti strattona via dal divano e ti ributta giù, attonito e stordito) sarà, con ogni probabilità, la versione (non) ufficiale dei fatti in questi giorni di anniversario della tragedia nella valle del Piave. Una versione che poggia su questi capisaldi:
1) la frana delle 22:39 di mercoledì 9 ottobre 1963, che sterminò quasi duemila innocenti e cancellò (salvo la torre campanaria e poco altro) la città diLongarone dalla faccia della Terra, fu un crimine. Probabilmente un reato didisastro colposo, perché era prevedibile. Progettisti e dirigenti occultarono le prove della frana in atto, guidati da bieco interesse economico, in totale spregio della vita umana e della consapevolezza dei rischi che si correvano.
2) il movente del delitto è da ricercarsi nella necessità, da parte della proprietà (privata) della diga, la Sade, di completare in fretta e furia la terza prova di invaso, nonostante le sempre più insistenti scosse del monte Toc, per vendere la diga al neonato ente nazionale per l’energia elettrica, l’Enel, al miglior prezzo di realizzo possibile, spacciandola peraltro per impianto funzionante.
Carlo Semenza (1893-1961)
3) I maggiori responsabili della tragedia sono Carlo Semenza, l’ingegnere progettista della diga; Giorgio Dal Piaz, l’anziano luminare della geologia che, un po’ per rincoglionimento senile, un po’ per amicizia con l’ingegnere, un po’ per bisogno di soldi aveva firmato delle perizie sulla valle dal contenuto accomodato, tale da nascondere il pericolo di frane catastrofiche;Alderico Biadene, detto Nino, successore di Semenza in capo al Vajont quando l’ingegnere morì improvvisamente, il 30 ottobre del 1961, per una emorragia cerebrale.
4) Eroina della catastrofe è Tina Merlin, ex staffetta partigiana e poi cronista dell’Unità, che venne messa alla berlina (e pure querelata) per aver osato battagliare contro i potenti imprenditori della Sade: la Merlin andava dicendo, da anni, che la valle era in pericolo ma nessun altro giornalista le diede retta nel sostenere la battaglia in difesa dei montanari. In quei giorni di lutto nazionale dopo la tragedia, Indro Montanelli si distinse per aver dato dello “sciacallo” a tutti i giornalisti dell’Unità, il giornale che denunciò, solitario, la prevedibilità della frana del Vajont (Montanelli, peraltro, non cambiò mai idea in proposito; tanti grandi cronisti dell’epoca, da Dino Buzzati a Giorgio Bocca, sostennero con forza la tesi della catastrofe naturale). (vedi nota 1)
5) Figure in chiaroscuro dell’affare Vajont, sempre nella tesi di Paolini, sonoLeopold Müller, il geologo austriaco che scoprì la grande frana a forma di M e che però intervenne troppo tardi per salvare la vita ai civili, ed Edoardo Semenza, il figlio del costruttore della diga, il quale aveva osato contraddire l’ottimismo del padre, denunciando una frana molto maggiore di quella che sia il vecchio Dal Piaz, sia il geofisico di Stato Pietro Caloi ammettevano fosse presente. Alla fine della fiera, il giovane e ribelle Semenza era stato convinto a smussare i risultati delle sue ricerche, per non ostacolare il colossale affare della diga del Vajont.
Il modello della diga realizzato a Nove (Vittorio Veneto) per conto del professor Ghetti
Onestamente, fino al giorno in cui non mi ritrovai in mano il controcanto di Paolini, non avevo alcun motivo di dubitare dell’inattaccabilità di un racconto così documentato, ragionevole e consequenziale: tutto torna, nelle parole della sua orazione civile. I tempi della vicenda, le inspiegabili reticenze, le indagini affidate in sordina ad Augusto Ghetti, professore di idraulica a Venezia, che aveva realizzato un piccolo Vajont in scala 1:200 nel centro modelli idraulici dell’Università per verificare gli effetti della paventata frana del monte Toc. Insomma: tutti sapevano della frana, nella stanza dei bottoni alla Sade, la Società Adriatica di Elettricità che volle testardamente erigere quello splendido mostro di diga proprio nella gola tra il Toc e il monte Salta. I responsabili si tapparono le orecchie per fingere di non sentire i pareri dissonanti, la politica se ne lavò le mani (quando non si mostrò connivente), i grandi giornali recitarono il ruolo di servi del padrone e, quando il disastro avvenne sul serio, tutti quanti si appigliarono alla crudeltà del caso, alla imponderabile violenza della natura per tentare di nascondere responsabilità esclusivamente umane.
Un giovanissimo Edoardo Semenza osserva la frana del monte Toc
Questa è l’orazione civile di Marco Paolini, un documento di straordinaria passione, interpretato con raro talento. Cui ha provato a rispondere, essendo stato chiamato in causa, proprio Edoardo Semenza, il figlio del costruttore della diga. Purtroppo Semenza junior è morto nel 2002, ma racconta di essere riuscito a incontrare più volte Paolini dal 1997, e di avergli esposto le sue rimostranze sulla ricostruzione degli eventi che portarono alla tragedia. Quei commenti e quelle considerazioni sono racchiuse in un libro difficile da trovare, pubblicato da una casa editrice di Ferrara (la k-flash) a cura di alcuni dei figli di Edoardo. Si intitola “La storia del Vajont raccontata dal geologo che scoprì la frana”.
Tina Merlin (1926-1991)
Semenza ha, pardon, aveva un evidente problema di tolleranza nei confronti della sinistra. In tutte le sue pagine dedicate alla Merlin, a Paolini, all’Unità emerge chiaramente l’incapacità di celare la sua viva antipatia per quelli che lui considerava ancora (nel 1999, non nel 1963) dei comunisti (quindi contro l’impresa e il profitto, quindi contro il progresso, quindi contro suo padre, quindi anche un po’ degli infami). Tutto sommato, da parte di un uomo del 1927 che assistette al linciaggio post mortemdel padre da parte del Pci (sia sul quotidiano di partito, sia nella relazione parlamentare di minoranza istituita dopo la frana del 9 ottobre), un atteggiamento del genere si può capire.
Per cui, ecco, la parte della sua opera dedicata alla mera correzione bozze dello spettacolo di Paolini – che inevitabilmente è talora scivolato in errori e refusi – somiglia alla rivincita piccata dello sconfitto. La diga crollata a Fréjus, in Francia, non si chiamava Massenet ma Malpasset, d’accordo; Arcangelo Tiziani, l’operaio travolto dalla frana di Pontesei, non era zoppo e non faceva il guardiano, va bene; l’etimologia riveduta da Paolini, con Vajont che significherebbe “va giù” e Toc “pezzo marcio” è seriamente opinabile, e così via. Tutti questi passaggi, peraltro non rari, sono stucchevoli, quando non pericolosamente imparentati al grottesco: Semenza fa quasi tenerezza, quando rinfaccia a Paolini di averlo dipinto come «capellone e contestatore» nel libretto allegato al suo spettacolo, e ci tiene a rettificare: lui, anche da ragazzo, si faceva regolarmente la barba e non ci teneva proprio, a essere accomunato ai figli dei fiori.
In altri passi del volume, che evidentemente non è passato sotto gli occhi di uneditor, prima chiama il papà “C.Semenza”, manco fosse una targa su un rifugio alpino, e due righe sotto lo cita come “mio padre”: sono i paragrafi in cui protesta per i fantasiosi racconti di Semenza e Dal Piaz durante le prime ispezioni in valle, allegoria che Paolini utilizza per esigenze sceniche ma che l’autore legge come «[…] aver provveduto sapientemente a metterli in ridicolo con la fiaba del sidecar». Sembra proprio che Semenza junior abbia scritto la sua raccolta di appunti provvisto di notevole coda di paglia, esageratamente preoccupato dall’idea che qualcuno potesse rinfacciargli di aver proceduto a una mera difesa d’ufficio del genitore, o che lo si potesse accusare di aver beneficiato di nepotismo per essersi visto affidare, a suo tempo, consulenze da parte del padre. I risultati dell’operazione, comunque, sono disastrosi. (vedi nota 2)
Tuttavia, lo avrete capito, le considerazioni di Semenza da pesare sono altre. E non mancano.
«Al fine di ristabilire la verità nei confronti soprattutto di mio padre, ma anche di ognuna delle persone coinvolte nella vicenda, credo sia mio dovere far sapere tutto quello che penso, anche se questo mio sforzo dovesse ottenere uno scarso effetto». (Edoardo Semenza, op. cit.)
1) Paolini, in sostanza, mente. Lo fa, ovviamente, «perché la sua visione politica lo ha indotto a prestare fede solo a ciò che hanno scritto le persone della sua parte», ma non è vero, dice, che della frana del Toc si sapesse già dal 1959, perché nelle relazioni si parlava della zona della Pineda, non del monte poi franato. Né è vero che la gente del luogo fosse allarmata per la situazione del Toc, anzi, le uniche preoccupazioni venivano dagli abitanti di Erto, paese che sorge sull’altra sponda, sul monte Salta. A proposito di Erto, poi, aggiunge considerazioni sul lavoro della Merlin (in particolare sul suo libro, “Sulla pelle viva”, che ispirò Paolini).
I tre articoli della Merlin sul caso Vajont pubblicati dall’Unità
2) Tina Merlin ci ha un po’ marciato perché si fece immeritatamente passare, sostiene Semenza, per la Cassandra del disastro del Vajont, dichiarando di aver scritto del pericolo rappresentato dalla frana per anni, e di essere rimasta inascoltata. Semenza riporta una circostanza non del tutto falsa. Gli articoli della Merlin sull’Unità, in tutti gli anni della questione Vajont prima del disastro, furono appena tre. Uno nel 1959, un secondo nel 1960, il terzo e ultimo nel 1961. Fine lì. E innessuno di quei testi si fa cenno a Longarone, il paese sotto la diga che fu cancellato dall’onda, se non per contemplare (in una riga) il caso in cui la diga avesse ceduto alla frana. Le preoccupazioni della gente del posto, prima della comparsa della fessura a M sul monte Toc, erano limitate all’abitato di Erto, cioè al franamento dell’altra sponda della valle, quella del monte Salta. E la Merlin di quelle possibili sventure aveva parlato. La giornalista, e lo dico esaminando la vicenda oggi, con distacco, fu senz’altro meritevole nella sua lotta in difesa dei montanari ertani, e la Sade la trascinò in tribunale pur sapendo di avere, tutto sommato, torto (cfr. nota 1). Però, perdonate la parola, risultò un pochetto “fortunata”, mettiamola così: nel senso che, raccogliendo timori dei montanari e antichi presagi di sventura, si poté poi accreditare come unica scopritrice dell’inganno da parte della Sade, mentre nessuno aveva la più pallida idea del fatto che l’intera montagna potesse piombare nel lago a quella velocità. In effetti, anche in questo stralcio di intervista alla Merlin, scovato nel 1996 negli archivi Rai dai redattori di Mixer, la giornalista conferma che quanto sapeva della frana era legato ai timori dei contadini di Erto e Casso per i loro averi. E Semenza non manca di sottolineare – anche troppo, per il vero – che quello della Merlin fu, per certi versi, un… colpo fortunato.
3) La frana, quella frana che spazzò via una città a valle, non era prevedibile. Questo è un punto cardine della posizione di Edoardo Semenza. Che fu davvero lo scopritore della paleofrana che poi causò la strage, nel 1959. Incaricato da padre di indagare su possibili gravi pericoli di frana, Semenza junior depositò una relazione in cui annunciava la presenza di una estesa e antichissima frana in cima al monte Toc (che, se scoperta e acclarata in anticipo, avrebbe bloccato il progetto: non si fa un lago artificiale su una valle già franata. Ma Dal Piaz non volle mai credere a quella ipotesi). Il padre, letta la relazione, gli chiese – la lettera è agli atti del processo – di «attenuare alcune delle affermazioni più estremiste, tanto non cascherà il mondo». Semenza junior spiega che quella frase non costituiva un ordine, da padre a figlio, di insabbiare una scoperta che avrebbe potuto bloccare per sempre tutto il progetto Grande Vajont, ma una richiesta che rispondeva all’esigenza di non allarmare proprio la Sade, padrona dell’impianto, che Semenza padre temeva potesse sospendere o ritardare i lavori in ragione di uno studio non corroborato da sufficienti evidenze (tant’è che l’ipotesi di Edoardo Semenza rimase in dubbio fino all’epilogo). E che comunque, proprio in ragione di quella presunta scoperta, Semenza padre incaricò l’ingegner Leopold Müller di effettuare indagini (che poi, in qualche modo, confermarono l’esistenza di una frana enorme sul monte Toc). Semenza ci tiene a sottolineare che, a differenza di quanto sostiene Paolini, il professore austriaco non scrisse né disse mai che “l’unica soluzione è abbandonare il progetto”: l’equivoco nasce dal fatto che, nella relazione parlamentare sul disastro del Vajont, prima si citò una frase del 15esimo rapporto Müller del febbraio 1961 (“Una volta mossa, la frana non tornerebbe tanto presto all’arresto assoluto”) e poi si aggiunse una frase dei relatori (“Ciò conferma che la sola misura di sicurezza era rappresentata dall’abbandono dell’impresa”). Paolini – ma non solo lui – mette in bocca al professore, probabilmente senza esserne consapevole (ma la frase dei parlamentari è al passato, quindi si capisce che non è parte della relazione) una sentenza mai pronunciata, e cioè che secondo lui l’unica soluzione fosse quella di abbandonare il Vajont.
Leopold Mueller (1908-1988)
Ma nessuno poteva pensare che la montagna potesse cascare con quella velocità di scivolamento, tanto è vero che i tecnici della diga rimasero tutti nelle loro cabine, e morirono così come gli operai nella sala mensa del cantiere, e le famiglie di tutti i lavoranti che si erano trasferite a Longarone. In effetti l’indizio è pesante: Semenza non nega la frana, anche perché si vanta di averla “vista” per primo. Nega “quella” frana. Nega, cioè, che fosse stata messa in conto un’onda di quelle proporzioni, così come nega che l’esperimento di Ghetti sul modellino sia stato alterato per non allarmare lo Stato e la popolazione: perché è vero che nelle prove di catastrofe fecero cadere la frana, a forma di M, in due tempi, ma in maniera che gli effetti sull’onda fossero addirittura superiori a quelli di una caduta in un solo tempo, non certo per insabbiare la previsione di una tragedia. E l’uso di ghiaia per l’esperimento, aspramente criticato da Paolini nel suo spettacolo, non fu un errore: semplicemente, non si era sperimentato un tempo di caduta poi corrispondente a quello reale, perché ritenuto erroneamente inconcepibile, e fu quella scelta a rendere i risultati dell’esperimento non affidabili (peraltro ha ragione Semenza: non è vero che nei test francesi, realizzati dopo il disastro, si siano usate “lastre di calcestruzzo avvitate insieme”, come affermato dall’attore).
4) La corsa al collaudo. Paolini e la Merlin sostengono che la frana cadde perché stimolata dalla veloci manovre di invaso e svaso del lago del 1963, fatte con sprezzo del pericolo per
Marco Paolini in diretta su Rai Due, il 9 ottobre del 1997, per il suo racconto del Vajont
completare il collaudo e vendere la diga all’Enel al miglior prezzo. Semenza, però, spiega e circostanzia che un movente del genere non ha senso: prima di tutto, perché la legge sulla nazionalizzazione delle industrie dell’energia aveva obbligato la Sade (e tutti gli attori privati fino ad allora esistenti) a vendere il suo impianto all’Enel. E poi perchéla legge sulla nazionalizzazione non prevedeva il pagamento dei singoli impianti ma un indennizzo, più generico, calcolato sul valore delle azioni delle società nei tre anni precedenti. Quindi, il discorso di Paolini sulla vendita (con frode) di un’automobile usata con la complicità del meccanico (cioè dei responsabili Sade, che cambiarono casacca ma non fini affaristici pur diventando dipendenti dell’Enel) non regge, perché non esisteva una quotazione autonoma dell’impianto del Vajont; la Sade era peraltro proprietaria di molteplici dighe idroelettriche nel Nord Italia. La documentazione agli atti del processo sul disastro del Vajont, poi, indica che Carlo Semenza non mostrava di avere alcuna fretta nel programmare le prove di invaso, ancora nel 1962. Ma, come detto, morì prima del tragico finale della storia. Sicché il bastone del comando passò a Nino Biadene. E qui c’è il possibile snodo del dramma: difatti…
5) Chi sbagliò davvero? Secondo Semenza junior, in poche parole, se colpa ci fu, il colpevole va individuato in Biadene. Che non poteva, si premura di precisare, immaginare un’onda di duecento metri. Tuttavia, (cito dal testo)
Alderico Biadene, detto Nino (1900-1985)
«…nonostante i motivi di tranquillità (si riferisce alle ultime relazioni dei periti, che scongiuravano disastri, nda) appare difficilmente comprensibile il motivo per cui a questo punto, anche con l’esperienza dei primi invasi durante i quali i movimenti erano rallentati soltanto dopo un notevole abbassamento del livello, e nonostante l’indicazione della relazione Ghetti sulle prove col modello idraulico, non si sia riabbassato subito il livello del lago, ma anzi da metà agosto si sia ripreso a innalzarlo ulteriormente fino a quota 710». Semenza fatica moltissimo a riconoscere colpe a Biadene, grande amico del padre, ma tra le righe fa capire che il suo atteggiamento, spesso sfrontato, può aver contribuito a sottostimare le conseguenze di quegli ultimi invasi e svasi. Biadene, pochi giorni prima del disastro, aveva risposto con spocchia al sindaco di Erto, che si era lamentato dei tremori del monte Toc, con parole che poco dopo suonarono come un terribile autogol: «Non entro nelle affermazioni, piuttosto azzardate, del Comune di Erto. In ogni caso, la situazione è tenuta sotto controllo dal nostro ufficio locale». Un ipse dixit davvero imbarazzante, che Marco Paolini giustamente riporta nella sua efficacissima orazione civile.
L’ultima rincorsa ad abbassare il lago sotto quota 700 (quella che Ghetti aveva ritenuto “di assoluta sicurezza”) fu certamente condotta con inspiegabile incoscienza, perché – almeno stando a ciò che si era accertato – la possibilità di far staccare la frana era ben nota all’ingegnere, al capocantiere Pancini e ai collaboratori ma si decise di procedere ugualmente, forse nella consapevolezza che sarebbe bastato mettere in sicurezza gli abitanti di Erto e quelli più vicini al lago per evitare guai. La corsa ad abbassare il lago, quando ormai la montagna si muoveva a vista d’occhio, riuscì, tanto che quando la frana cadde «al cantiere presso la diga e nella cabina degli strumenti sulla spalla sinistra perirono numerosi dipendenti Enel e delle imprese addette ai lavori; tra queste vi erano persone di grande valore professionale e morale, addette alle misure degli spostamenti della frana, al controllo continuo degli strumenti e alla preparazione dei rapporti, quindi più di chiunque altro al corrente della situazione». Difficile si siano suicidate per coprire la verità, in effetti. I professoriHendron e Patton, due luminari del ramo, studiarono il disastro del Vajont e conclusero che quella velocità di scivolamento eccezionale, 25-30 metri al secondo, fu causata anche dalle precipitazioni abbondanti dell’ultimo mese, che “spinsero” l’acquifero inferiore del monte Toc a esercitare pressione sulla massa sovrastante, pressione che la forza opposta, quella del lago sulle pareti della montagna, non riusciva più a compensare.
Edoardo Semenza (1927-2002)
Non posso rendere giustizia alle luci e alle ombre del lavoro di Semenza junior, magari troppo ruvido e non facilissimo da maneggiare ma utilissimo per approfondire la querelle, se non invitandovi a leggerlo, anche perché fu (ed è) costretto a misurarsi con uno spettacolo dalla potenza incomparabile come quello di Marco Paolini. Credo che la partita si possa chiudere considerando il movente come il punto debole della ricostruzione accusatoria di Merlin-Paolini: effettivamente non sussisteva una ragione economica specifica per sfidare la montagna tremante, né “quella” frana, dagli esiti apocalittici, era stata messa in conto (l’altra, individuata dal figlio di Semenza, lo era eccome, eppure non fu tenuta in considerazione fino in fondo, soprattutto dalla nuova direzione post Semenza, quella di Biadene). E sì, in effetti i rari e isolati reportage di Tina Merlin dal Vajont ebbero il gran merito di costituire l’unica voce dissonante contro la costruzione di una diga a doppio arco che, ai tempi, era la più alta del mondo; ma (non per colpa sua, va da sé) non avevano inquadrato del tutto il vero problema, perché parlavano di una frana ai danni di Erto riguardo alla quale la Sade prima, e l’Enel poi, avevano stabilito che non sussistessero seri pericoli. Vien quasi da pensare che, sebbene si sarebbe potuta comunque riconoscere una sua responsabilità per aver deciso di costruire la diga su una valle poi franata, se Carlo Semenza non fosse morto non ci sarebbe stata quella stupida e incosciente gestione degli ultimi mesi al Vajont, con una terza prova di invaso scellerata e azzardata. Forse si sarebbe svuotato il lago, forse il Toc sarebbe franato senza incontrare l’acqua, forse…
Ma se l’ipotesi di una strage premeditata forse non sussiste, o comunque non è dimostrabile con prove univoche, c’era invece materia per considerare molti dei capi di imputazione del processo di primo grado, nel quale si era chiesto di condannare Alberico Biadene (responsabile in capo della diga), Mario Pancini (capocantiere), Pietro Frosini (presidente consiglio superiore lavori pubblici), Francesco Sensidoni (ingegnere capo del serivizio dighe), Curzio Batini (ispettore generale del genio civile), Francesco Penta (geologo del servizio dighe), Luigi Greco (presidente consiglio superiore lavori pubblici), Almo Violin (capo genio civile di Belluno), Dino Tonini (dirigente ufficio studi Sade), Roberto Marin (direttore generale Enel-Sade) e pure il professor Augusto Ghetti per vari reati, dall’omicidio colposo plurimo aggravato al disastro colposo di frana, al disastro colposo di inondazione. Aggravati, per l’accusa, dalla previsione dell’evento. Finì, in Cassazione, con Biadene e Sensidoni riconosciuti colpevoli di inondazione, aggravata dalla previsione dell’evento, frana e omicidi. Biadene venne condannato a cinque anni, Sensidoni a tre anni e otto mesi, entrambi con tre anni di condono. Tonini venne assolto per non aver commesso il fatto; gli altri imputati, già assolti in primo grado e in appello, uscirono senza conseguenze dal processo. Tranne Curzio Batini, che si ammalò di depressione, e l’ingegner Mario Pancini, che si suicidò nel 1968, a pochi giorni dall’inizio del processo.
Tempo fa mi imbattei, salendo verso Erto, nella lapide di Felice Corona, una giovane vittima del disastro. Struggente e poetica, racchiude una verità ragionevole su quanto accadde il 9 ottobre del 1963, e sul perché non venne evitata una tragedia che rimane incancellabile nella memoria storica del secondo dopoguerra.
«Diga funesta / per negligenza e sete d’oro altrui / persi la vita che insepolta resta»
(nota 1) Tina Merlin fu denunciata dalla Sade e processata per aver “diffuso notizie false e tendenziose, atte a turbare l’ordine pubblico” con i suoi articoli sull’Unità. Il tribunale di Milano la assolse il 30 novembre del 1960. Decisiva fu la frana superficiale del 4 novembre 1960, che lesionò costruzioni e terreni, e in sostanza diede ragione alle denunce della Merlin. Tuttavia, le fotografie mostrate da tre testi in aula non ritraevano né la frana in atto sul monte Toc, né quella che poi si staccò il 4 novembre, ma la frana della Pineda, sull’altro versante della valle. La posizione di Carlo Semenza sulla Merlin, che ritrovate anche più avanti nel testo, al punto 2), è quindi questa: la giornalista bellunese non sapeva, nel 1960, dell’esistenza di una frana ben maggiore, sulle pendici del Toc. Né sapeva – o poteva presagire – che quella frana avrebbe distrutto i paesi in basso, nella valle del Piave.
(nota 2) A un certo punto del libro, Semenza racconta che sua madre conservò sul comodino, dopo il disastro, una fotografia del defunto marito, con una dedica che la accompagnava: “Ecco la prima, la grande vittima del Vajont”. Ora: con tutta la comprensione che si può avere per la posizione e i sentimenti di Edoardo Semenza verso i genitori, citare quelle poche righe comporta, nel lettore medio, effetti simili a quelli di una chitarra suonata con un sasso. Perché, al di là di ogni considerazione, che Semenza sia stato il progettista e costruttore della diga non lo renderebbe vittima più grande delle altre duemila, anzi; semmai, vien da pensare che qualcuno di quei morti lo vorrebbe tartassare un bel po’, potesse. Ma soprattutto, Semenza morì per cause naturali due anni prima del disastro. E con il rispetto delle opinioni di una vedova addolorata, non si capisce quali debbano essere state le ragioni del Vajont che condussero il marito alla morte: Edoardo, il figlio, sostiene che fossero state le pressioni e, forse, anche le accuse di essere un affarista senza scrupoli, a contribuire al peggioramento delle condizioni di salute del padre. Fatto sta che quel dettaglio avrebbe fatto meglio, molto meglio a custodirlo come segreto di famiglia. Carlo Semenza, peraltro, aveva commissionato alla Unieuropa Film un cortometraggio sulla costruzione della diga del Vajont, intitolato pomposamente “H Max 261,6″, che poi è l’altezza della diga dopo il permesso di alzarla rispetto al progetto originario. Nel filmato, Semenza senior fa da voce narrante e compare anche nelle riprese: la involontariamente tragicomica chiusura del girato parla dell’incancellabile ricordo che tecnici e maestranze conserveranno riguardo all’impresa della costruzione della diga dei record. Eccolo.